Le mie afriche


“C’è l’ho fatta”.- Arrivo un po’ trafelato al gate da cui, tra dieci minuti, mi imbarcherò per Milano. Non ero sicuro di riuscire a prendere la coincidenza Lisbona Milano. Un’ora di tempo tra un volo a l’altro non è molto, soprattutto se il mio aereo arriva da Dakar. Di solito i voli da Dakar arrivano con almeno un ora di ritardo. Invece stavolta il volo Dakar-Lisbona è arrivato persino in anticipo ed io sono pronto ad imbarcarmi per Milano. Ho persino il tempo di prendere un caffè al bar che vedo a pochi metri. Che bello essere in Europa! Ritiro fuori dalla tasca segreta i miei Euro ed ordino un caffe in un inglese stentato, dopo essermi chieste se un barista portoghese preferisce che gli si parli in inglese, francese od addirittura italiano. Che sorpresa, un caffè vero! O gioia immensa un-caffe-quasi-italiano dopo due settimane di nescaffe ed intrugli vari! Non posso fare a meno di pensare a quando, in occasioni precedenti, mi sono fatto due risate sulla mania degli italiani di cercare un caffe italiano in tutte le parti del mondo…

Tra volo e viaggio da Milano a Torino ho davanti tre, quattro ore per pensare e capire: per esempio perché continuo ad andare in Africa, cosa mi spinge in quest’opera quasi missionaria a me che sono così intimamente allergico alle religioni. Perché, malgrado la mia indole tranquilla ed un po’ scansafatiche, prendo il mio corpo (che non ne vorrebbe sapere di spostarsi dal divano del salotto), lo metto su un aereo per Dakar, su vari taxi scassati, furgoncini fatiscenti, carri trainati da cavallo in giro in lungo e largo per la periferia di Dakar, fino alle remote regioni della Casamance e del Fouta. Tutto questo almeno una volta all’anno dal 1998. Cos’è questo viaggio, il settimo, l’ottavo? Prendo il passaporto e cerco di contare i bolli della Repubblica Senegalese; li conto tutti e divido per due così saprò quante volte sono andato in Senegal. Ma chiamano il mio volo … devo andare, sarà per un’altra volta.

Quattordici diviso due sette. Quest’ultimo è il mio settimo viaggio in Senegal. Pensavo di esserci stato più volte, addirittura otto… già mi stavo chiedendo perché torno in Africa. La domanda era stato sotterrata da quel misto di curiosità eccitazione e terrore che mi pervade quando sono in Aereo, ma ora che sono a terra, nella navetta Malpensa-Stazione Centrale Milano sono abbastanza rilassato da chiedermelo. Non si tratta di una domanda semplice: ci sono delle cose che fai perché c’è una motivazione chiara, razionale. Vado al ristorante perché ho fame, vedo un amico perché mi va di farlo, passeggio con Irene perché amo parlare con lei mentre camminiamo. Ma andare in Africa non si può spiegare con semplicità. Cerco di riordinare le idee.

Mi viene in mente un altro viaggio, un’altra attesa di una coincidenza, questa volta a Bruxelles, penso nel 1999. Penso alle parole di Lucia, mentre si discuteva sulle sensazioni fresche del mio secondo viaggio in Africa (per lei doveva essere il terzo od il quarto). Non me le ricordo con esattezza, ma il senso era “in Africa è tutto un caos, le condizioni sono invilibili, ma negli africani c’è energia, c’è voglia di stare insieme e di crescere, di parlare fino a notte inoltrata. In Europa ci sono i mezzi più complessi e potenti del mondo, ma quell’energia si è spenta”

Già, l’energia. Forse da quella chiacchierata è nato il mio concetto di “Africa cuore emotivo del pianeta”; ma sarà poi un mio concetto o l’ho copiato da qualcun altro di cui non ricordo nemmeno il nome? Poco importa, il concetto mi piace e l’ho fatto mio. Lo ripeto spesso ed a volte, chi mi sta attorno, lo assimila e lo fa suo, proprio come ho fatto io. Mi ricordo ad esempio di quella volta che, sulla RER di Parigi, Massimo rimase colpito dalla reazione eccessivamente emotiva di un francese di colore davanti a quello che aveva appena vomitato un nostro compagno di viaggio. In quel momento mi disse “Hai proprio ragione, gli africani sono molto emotivi…”; benché so che Massimo mi tiene nella più grande considerazione, penso che quella sia stata la volta in cui ha esternato questo rispetto nei miei confronti nella maniera più lampante.

Au revoir (Adieu?) - Dakar 10 ottobre 2009


Da oggi è ufficiale, perché anche in Senegal sono stati informati: per la riorganizzazione in atto il tutto il Movimento Umanista non sono più direttamente responsabile dei gruppi senegalesi.
Da adesso, ognuno per la sua strada.
Il cambiamento è rivoluzionario, almeno per quel che riguarda la vita dei soggetti implicati e di coloro che, in qualche modo, hanno collaborato e seguito fin qui le mie avventure senegalesi.
Per darvi un idea, nella mia agenda elettronica c’era (e c’è ancora perché non ho avuto ancora il coraggio di cancellarlo) un appuntamento periodico, tutti i mercoledì sera, che dice solamente “Africa”.
Mi serviva per ricordarmi che ogni settimana dovevo dedicare qualche minuto a pensare al processo africano ed a coloro che lo stanno portando avanti.
Ora quel promemoria non serve più.
La riorganizzazione delle attività prevede infatti che i senegalesi portino avanti le loro attività a livello locale, con le loro forze, senza un referente “straniero”.
Quello che spero è che il lavoro di formazione portato avanti in questi anni (a Diourbel a partire dal 2006) dia, almeno a qualcuno, l’autonomia sufficiente per proseguire da solo nell’opera di creare una società più umana.
Forse potevo fare di più e meglio, ormai il dado è tratto.
Non che pensavo che questo momento non sarebbe mai arrivato, ma viverlo è un'altra cosa … come dicevo una rivoluzione …

Un rivoluzione che si manifesta nel fatto che non ho programmato il prossimo viaggio (che si farà solo in determinate condizioni), nella cancellazione di quel reminder che diceva Africa.

Undici anni. Sono undici anni che vengo periodicamente in Senegal.
Undici anni di riz au poisson, di chiacchiere davanti ad un tè od ad un cielo stellato, di timbri sul passaporto, di bimbi bellissimi, di grandi speranze e piccole delusioni.
Undici anni a vivere la paura di ogni partenza e la gioia di ogni ritorno.

Quindi oggi sul septplace verso Dakar, con il sole che tramontava sulla fumosa e polverosa “madre di tutte le strade” mi sono chiesto se sarei mai tornato in questo paese e ho scoperto dentro di me una forte ambivalenza: da un lato la nostalgia per gli amici senegalesi, da un altro l’entusiasmo per nuove sfide e nuovi orizzonti.
Da un lato la sensazione di interrompere un mio sogno vecchio di decenni, ovvero quello di combattere efficacemente la povertà, dall’altro la prospettiva di farlo rivivere cambiando impostazione e contesto

Pape mi ha chiamato sul cellulare italiano per sapere se sono arrivato all’aereoporto.
Pape ha intuito che il mio “au revoir” era qualcosa di più definitivo, anche se non me la sono sentita di dire “adieu”.

Ora non ci voglio pensare.
Ora ho solo voglia di riabbracciare il mio piccolo Daniele e dirgli “Papà è tornato”

Tiriamo le somme - Diourbel 30/09/2009


Qualcuno mi ha fatto notare che nel mio post precedente c’era una nota di malinconia.
Probabilmente ha ragione.
In tutti i periodi di transizione si instaura una attimo di nostalgia per ciò che è stato e non potrà più essere.
Questo è indubbiamente un periodo di transizione, per me e per tutto il resto del mondo.
Passando dal generale al particolare, quello che, leggendo Fromm, avevo intuito da ragazzino sta diventando prepotente realtà.
Quella visione che mi permetteva di percepire il mondo come un’enorme bolla consumistica, mostruosa nel suo retroalimentarsi, si sta rilevando vera fino alle sue ultime conseguenze.
E’ bastato un piccolo foro, un speculazione immobiliare in una parte del mondo, per fare sgonfiare il mostro portandosi dietro i sogni e le speranze di tanti che ci credevano.
Dalle viscere del mostro morente stanno uscendo idee e concetti che si credevano banditi dalla storia: nazismi e fascismi di varia natura, la mercificazione dei corpi e degli spiriti, una guerra strisciante tra poveri, solitudini che si chiudono a riccio per difendere un tozzo di pane.
Nel mondo precedente ero un alieno, ben mimetizzato ma pur sempre un alieno.
In questo vedo i germi di qualcosa di nuovo ed i pericoli di qualcosa di antico.
Dipende da me … dipende da noi …
Tornando al Senegal, al qui ed adesso (ma perché stare in questo continente mi fa sempre partire per la tangente?) anche a Diourbel si tirano le somme.
Bisogna riuscire a capire quanta autonomia siamo riusciti a donare ai villaggi di Diourbel insieme al supporto economico.
Quella che io chiamo, per semplificare, cooperazione decentrata ha un aspetto intangibile ma fondamentale; non fare diventare i cooperati succubi della cooperazione.
Ovvero non sostituire il colonialismo (occupazione militare) ed il neo-colonialismo (occupazione economica) con una dipendenza dalla pietà e dalla compassione dei “fratelli ricchi”.
Così, mentre si organizza l’evento dei 2 ottobre qui a Diourbel sto cercando di precisare i rudimenti di una forma organizzativa e di un modo di pensare in grado di renderli autonomi nel loro lavoro il più presto possibile.
I più attenti mi diranno che questo era già previsto nel progetto iniziale, ora bisogna verificare se quel progetto è stato realizzato a fino a che punto; se il piccolo è in grado di camminare da solo …

Il 2 ottobre è la giornata internazionale della nonviolenza, in onore della data di nascita di Ghandi.
Per questo si è scelta questa data simbolica per far partire la “Marcia Mondiale per la pace e la nonviolenza” www.marciamondiale.org.
In occasione di questa data e della partenza della Marcia si stanno organizzando, in varie parti del mondo, eventi, spettacoli, iniziative.
In questo contesto il mio compito di questa settimana è quello di dare una mano nell’organizzazione dell’evento di Diourbel; sarà un evento culturale con spettacolo teatrale, musica locale ed alcuni brevi discorsi.

A presto, se mi resta tempo ….

Amarcord - Dakar 27/09/2009


Correva l’anno 1998. Era il solito agosto tropicale a Dakar, con caldo umido e piogge brevi e torrenziali.
Io ed Irene ci eravamo sposati da pochi mesi e quel viaggio in Senegal rappresentava, fra le altre cose, una specie di Luna di Miele.
Si era partiti con tante idee e poche cose fissate: il volo con l’Air Afrique (una compagnia aerea senegalese che prenotava voli su aerei che non aveva) , qualcuno che ci veniva a prendere all’aeroporto di Dakar, una lista di gruppi ed associazioni da andare a trovare tra la periferia di Dakar e Louga.
Qualche consiglio degli amici che già in Senegal ci erano stati, un posto dove andare a mangiare (Le point d’interrogation 2) ed un posto dove dormire (il Continental Annexe).
Si parte, con la valigia carica di medicine e di voglia d’avventura.
Con il senno di poi quel viaggio fu organizzato malissimo: troppi giorni (tre settimane), in un brutto periodo (agosto e la stagione delle piogge) senza aver pianificato precisamente cosa fare e soprattutto come, con un incredibile spreco di risorse economiche (due persone per venti giorni in albergo).
Ma è stata una di quelle esperienza che ti cambiano la vita.
Prima di allora non mi ero mai mosso dall’Europa e più precisamente, se si esclude qualche capatina a Parigi, dall’Italia.
Ed eccomi qui, improvvisamente proiettato in un mondo diverso: i mendicanti per le strade, un traffico asfissiante, i venditori ambulanti che cercano di venderti qualsiasi mercanzia, la trattativa con i taxista, i sapori così diversi, un vago ricordo di atmosfere infantili in Sicilia.
Soprattutto la sensazione che quella rivoluzione a misura d’uomo in grado di sconfiggere la fame e la povertà (il dolore e la sofferenza) non era solo un’idea malsana che mi condannava ad una vita da “straniero” in questo mondo, ma un’impellente necessità che si misurava con il numero di mendicanti poliomielitici per la strada (il vaccino antipolio da quanti anni è stato scoperto?).
Una possibilità concreta che si misurava con il numero di presenze alle riunioni in cui spiegavamo le nostre idee.
Una “missione” di vita che si misurava con il numero di richieste, di necessità, di desideri che in quelle riunioni prendevano forma.

Da quei giorni sono passati più di undici anni.
Dakar è quasi irriconoscibile da un punto di vista architettonico: nuove strade, nuovi edifici, negozi diversi, boutiques in stile occidentale per i nuovi ricchi.
Miracolosamente sono spariti anche i mendicanti.
Le idee si sono sistematizzate e strutturate (almeno nella mia testa), così come i progetti.
Per trovare le folle oceaniche ed entusiaste all’idea di un mondo migliore da costruire insieme giorno per giorno bisogna allontanarsi parecchio da Dakar, andare verso l’interno, nelle aree agricole in crisi intorno a Diourbel.
Gli abitanti di dakar sono troppo presi dalla frenesia di quel sogno che, in Europa e negli Stati Uniti, si sta infrangendo a colpi di crisi finanziarie: bisogna cercare l’ “alieno” per trovare una sponda in questo senso, ma a questo punto, si può continuare a mettere insieme e connettere gli “alieni” in Europa, a casa.
Anch’io non sono più la stessa persona di quelle foto sbiadite: non so se migliore, sicuramente meno incosciente di allora.
Ma quella sensazione di futuro aperto, di infinite possibilità, provata allora la ritrovo nel ricordo tutte le volte che mi fermo a Dakar e passeggio per le viie del centro o dormo nell’hotel di allora (che ora si chiama Blanchot ed è sopravvissuto all’Hotel Continental di cui era l’ “annexe”).

Ciao Jacko

La notizia della morte di Michael Jackson mi ha colpito più profondamente di quanto mi aspettassi.
La morte di qualcuno che conosci ti colpisce sempre anche se Jacko, ultimamente, non attirava le mie simpatie; sarò rigido ma non sopporto chi, avendo a disposizione tutti i mezzi e le opportunità, si autodistrugge inseguendo sogni e chimere. Non lo tollero fra la gente intorno a me, figuriamoci nelle figure “medianiche” che già tollero poco per questa loro caratteristica.

La sua morte non mi ha colpito per la tragica fine di un eterno ragazzo di cinquant’anni che ha avuto una vita difficile (difficile? Mi vengono in mente le baraccopoli di Dakar), sempre proteso a superare il suo stesso successo di per sé insuperabile (essendo cambiati il pubblico e le condizioni generali); mi ha colpito soprattutto quanto Jacko ha influenzato dagli States la mia vita qui in Italia.

La sua improvvisa mancanza mi ha fatto aprire cassetti della memoria ricoperti di polvere, ma comunque ancora lì a formare il mio gusto ed il mio pensiero.
Tanto per precisare il concetto, mi è venuto in mente un particolare di costume: i calzini bianchi. Jacko sdoganò negli anni 80 il calzino corto bianco che è sempre stato, prima e dopo, sintomo di individuo sfigato, facendolo diventare improvvisamente un must.
Ed eccomi là, in jeans, calzino bianco, scarpe da tennis, giacca nera su maglietta bianca che sorrido fiero in una foto dell’epoca; dovevo sentirmi tanto cool, anche se questo termine è entrato in uso successivamente.

Malgrado siano passati più di vent’anni quel ragazzo vestito in maniera oggettivamente improponibile è ancora dentro di me (come anche una marea di calzini bianchi nel mio cassetto della biancheria) e la morte di Jacko l’ha portato alla luce.
Come ha portato alla luce un’interminabile sequenza di brani di sue canzoni dal mio ipod mentale, soprattutto quelle ballate un po’ mielose così adatte a crogiolarsi in una dolce malinconia, anch’esse sicuramente ed intimamente legate agli episodi della mia vita, come una colonna sonora che a volte non hai mai chiesto e che sta sempre lì tuo malgrado.

Mi sono reso conto ancora una volta di più e per esperienza diretta di quanto i media, lo show business, contribuiscano a creare una coscienza comune, anche in me e, ribadisco, mio malgrado.

La crisi e l’unico metodo per uscirne


Non posso dire che la grande crisi che viviamo da qualche mese mi abbia colto di sorpresa: da anni ormai ero convinto che qualcosa del genere sarebbe successo primo o poi.
La bolla della speculazione finanziaria era diventata troppo grande, con le sue assurdità.
Negli ultimi tempi dell’ubriacatura finanziaria risultava più conveniente per chi aveva fondi investire in derivati piuttosto che nel lavoro umano (che è l’unica fonte che produce ricchezza reale).
Quello che forse non è ancora chiaro a tutti è che siamo di fronte a una crisi epocale e niente sarà più come prima; occorre ricostruire un’idea di comunità ed un sistema economico meno squilibrato del precedente.
A mio parere l’unica strada valida per uscire dalla crisi, che è economica, sociale e personale, sta nel ricostruire quelle relazioni sociali che nei paesi ricchi si sono perse e che invece consentono la vita nei paesi in difficoltà.
Un forte, nuovo impulso verso una vita cooperativa ed associativa nelle sue varie forme rappresenta un’ottima soluzione per rispondere alla crisi, insieme: per andare in questa direzione io e gli altri di Help to Change (www.helptochange.it) siamo pronti a fornire il supporto conoscitivo e logistico per far nascere GAS, Banche del tempo, cooperative e ambiti di relazione ed interscambio.
In alternativa, si può rispondere alla crisi chiudendosi nella difesa del proprio orto, sia a livello personale che a livello sociale: ma questa soluzione, oltre a darmi un forte senso di rigetto per le sue conseguenze sia a livello di esistenza individuale sia a livello di implicazioni sociali (la paura per il diverso, i disperati sui barconi rispediti a morire in Libia sono solo alcuni esempi), non garantisce alcunché; dietro i muri di difesa che si vanno a costruire rimangono uomini fragili e soli, in balia degli eventi.