Amarcord - Dakar 27/09/2009


Correva l’anno 1998. Era il solito agosto tropicale a Dakar, con caldo umido e piogge brevi e torrenziali.
Io ed Irene ci eravamo sposati da pochi mesi e quel viaggio in Senegal rappresentava, fra le altre cose, una specie di Luna di Miele.
Si era partiti con tante idee e poche cose fissate: il volo con l’Air Afrique (una compagnia aerea senegalese che prenotava voli su aerei che non aveva) , qualcuno che ci veniva a prendere all’aeroporto di Dakar, una lista di gruppi ed associazioni da andare a trovare tra la periferia di Dakar e Louga.
Qualche consiglio degli amici che già in Senegal ci erano stati, un posto dove andare a mangiare (Le point d’interrogation 2) ed un posto dove dormire (il Continental Annexe).
Si parte, con la valigia carica di medicine e di voglia d’avventura.
Con il senno di poi quel viaggio fu organizzato malissimo: troppi giorni (tre settimane), in un brutto periodo (agosto e la stagione delle piogge) senza aver pianificato precisamente cosa fare e soprattutto come, con un incredibile spreco di risorse economiche (due persone per venti giorni in albergo).
Ma è stata una di quelle esperienza che ti cambiano la vita.
Prima di allora non mi ero mai mosso dall’Europa e più precisamente, se si esclude qualche capatina a Parigi, dall’Italia.
Ed eccomi qui, improvvisamente proiettato in un mondo diverso: i mendicanti per le strade, un traffico asfissiante, i venditori ambulanti che cercano di venderti qualsiasi mercanzia, la trattativa con i taxista, i sapori così diversi, un vago ricordo di atmosfere infantili in Sicilia.
Soprattutto la sensazione che quella rivoluzione a misura d’uomo in grado di sconfiggere la fame e la povertà (il dolore e la sofferenza) non era solo un’idea malsana che mi condannava ad una vita da “straniero” in questo mondo, ma un’impellente necessità che si misurava con il numero di mendicanti poliomielitici per la strada (il vaccino antipolio da quanti anni è stato scoperto?).
Una possibilità concreta che si misurava con il numero di presenze alle riunioni in cui spiegavamo le nostre idee.
Una “missione” di vita che si misurava con il numero di richieste, di necessità, di desideri che in quelle riunioni prendevano forma.

Da quei giorni sono passati più di undici anni.
Dakar è quasi irriconoscibile da un punto di vista architettonico: nuove strade, nuovi edifici, negozi diversi, boutiques in stile occidentale per i nuovi ricchi.
Miracolosamente sono spariti anche i mendicanti.
Le idee si sono sistematizzate e strutturate (almeno nella mia testa), così come i progetti.
Per trovare le folle oceaniche ed entusiaste all’idea di un mondo migliore da costruire insieme giorno per giorno bisogna allontanarsi parecchio da Dakar, andare verso l’interno, nelle aree agricole in crisi intorno a Diourbel.
Gli abitanti di dakar sono troppo presi dalla frenesia di quel sogno che, in Europa e negli Stati Uniti, si sta infrangendo a colpi di crisi finanziarie: bisogna cercare l’ “alieno” per trovare una sponda in questo senso, ma a questo punto, si può continuare a mettere insieme e connettere gli “alieni” in Europa, a casa.
Anch’io non sono più la stessa persona di quelle foto sbiadite: non so se migliore, sicuramente meno incosciente di allora.
Ma quella sensazione di futuro aperto, di infinite possibilità, provata allora la ritrovo nel ricordo tutte le volte che mi fermo a Dakar e passeggio per le viie del centro o dormo nell’hotel di allora (che ora si chiama Blanchot ed è sopravvissuto all’Hotel Continental di cui era l’ “annexe”).