Riflessioni a ruota libera (prima parte) - Torino 8 aprile 2010

Amo andare in bici, soprattutto dopo aver vinto la resistenza dell’abitudine a girare per la città in auto, l’illusione di non avere tempo a sufficienza ed anche, concretamente, i limiti fisici di un corpo non molto allenato allo sforzo.

Già perché io, se si esclude una breve parentesi una ventina d’anni fa, ho sempre privilegiato il pensiero alla forma fisica.

In ogni caso, quando riesco a prendere il mio culone ed appoggiarlo nel sellino della mia vecchia mountain bike non me ne pento; scarico tensioni, mi sento molto più figo o cool come si usa dire oggi e penso.

Oggi ad esempio ho pensato alla sensazione di malessere che mi attanaglia da un po’ di giorni ed ho cercato di dargli dei nomi, dei volti, dei motivi.

Sono partito da una considerazione di base: una delle cose che mi infastidisce di più è la sensazione di non lasciar traccia.

Non sono credente, quindi non ho una fede particolare su paradisi post mortem.
Credo piuttosto in un universo di cui tutti facciamo parte, che per il momento ho visto descritto nella maniera migliore da Richard Bach in Uno.
Se non ricordo male, l’autore de “Il Gabbiano Jonathn Livingstone” si inventa una metafora simile: ognuno di noi, nella sua individualità, è come una radio sintonizzata ad una sua frequenza particolare. Quindi ognuno trasmette una parte dei messaggi che ci sono nell’etere, ma l’etere è Uno.

Ma continuo a divagare, dicevo una delle cose che mi infastidisce di più è la sensazione di non lasciar traccia o meglio di non riuscire ad essere risolutivo nel cambiare in meglio la vita delle persona che mi stanno intorno.

Nella salita del Parco Ruffini tento di fare un bilancio dei miei quarantadue anni; sarà la fatica di una piccola salita che per me è un gran premio della montagna, ma l’unica cosa che mi viene in mente è una cosa del tipo “la normalità è un concetto limite e come tale non esiste, è inutile impegnarsi tanto per cercare di raggiungerla e mantenerla”…

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